DI EDUARDO ZARELLI
ariannaeditrice.it
«Un uomo stava camminando nella foresta quando s’imbattè in una tigre. Fatto dietro-front
precipitosamente, si mise a correre inseguito dalla belva. Giunse sull'orlo di un precipizio,
ma per fortuna trovò un ramo sporgente di un albero a cui aggrapparsi. Guardò in basso,
e stava per lasciarsi cadere, quando vide sotto di sé un'altra tigre. Come se non bastasse,
arrivarono due grossi topi, l'uno bianco e l'altro nero, che cominciarono a rodere il ramo.
Ancora poco e il ramo sarebbe precipitato. Fu allora che l'uomo scorse una fragola matura.
Tenendosi con una sola mano la colse e la mangiò. Com'era buona!».
Koan Zen
Un tempo si diceva che il battito d’ali di una farfalla in Polinesia
poteva provocare una catastrofe nell’emisfero opposto. Era una classica
iperbole della complessità, per esprimere il concetto che l’ecosistema
Terra è integrato e ogni sua componente è interdipendente.
Nel
sistema mondo capitalista, l’iperbole si è realizzata patologicamente in
economia, attraverso il denaro che, essendo virtuale, non conosce i
limiti del contesto fisico ambientale.
Enormi masse di denaro si
spostano ogni giorno, ogni ora, ogni minuto da una parte all’altra del
mondo senza trovare ostacoli. In un mondo integrato e globale, la
spregiudicatezza locale nell’elargizione di mutui ipotecari – per
restare alla nostra metafora – può avere conseguenze devastanti in ogni
angolo del Pianeta.
Quella in corso, tuttavia, è solo la più recente e ampia versione di una
crisi strutturale, che sussegue ad altre degli ultimi anni montando con
irreversibile compulsione: bancarotta del Messico nel 1996, tracollo
delle "piccole tigri" asiatiche nel 1997, "subprime" americani nel 2008;
quindi è rimbalzata in Europa, provocando il default dell’Irlanda e
della Grecia, poi, come un’onda di ritorno, ha colpito di nuovo gli
Stati Uniti, mentre in Europa le defaillance irlandese e greca hanno
intaccato il Portogallo e la Spagna, e hanno aggredito l’Italia e oggi,
probabilmente, tutto il vecchio continente. Una crisi, insomma, che non
può essere governata, perché segna il punto d’arrivo di un modello di
sviluppo basato sulle crescite esponenziali. In tal senso, come si fa ad
uscire dalla economia debitoria – leggi “finanziarizzazione
dell'economia” – senza uscire anche dall'economia della crescita? La
crisi non si limita ai comportamenti criminali di un manipolo di
speculatori; le sue cause strutturali, sistemiche, sono da individuare
in una crescita smisurata e nel conseguente ricorso a vari tipi di
indebitamento: finanziario (derivati, obbligazioni, titoli azionari
mobilitati per un valore totale otto volte superiore al PIL reale),
monetario (il denaro emesso è dodici volte il PIL mondiale), pubblico
(sia quello contratto dai vari Stati con altri Stati, sia quello verso i
propri cittadini-risparmiatori), privato (crediti al consumo, carte di
credito ecc.).
Via gli speculatori, quindi? Certo, ma di fatto non ci sarebbero grossi
cambiamenti, perché anche l'azienda presso cui andiamo a lavorare,
l'amministrazione comunale del posto in cui abitiamo, la locale azienda
sanitaria, il fondo che gestisce la nostra pensione, la banca
emettitrice del nostro bancomat e l'agenzia di Stato che versa il
sussidio di disoccupazione al nostro vicino cassaintegrato sono da
tempo, in un modo o nell'altro, indebitati. Tutti avevano fatto conto
("aspettativa", si dice in economia) di riuscire in futuro a guadagnare –
facendo profitti, riscuotendo tasse, realizzando interessi, vendendo
immobili e "cartolarizzando" il Colosseo... – più di quanto avevano
ricevuto in prestito. Credevano, cioè, nella chimera di una crescita
economica esponenziale e senza fine. Un calcolo tragicamente sbagliato.
Da tempo – dieci, venti anni, e c’è chi dice trenta – le economie
occidentali sono in crisi di realizzo, il loro tessuto produttivo non è
più in grado di riprodurre guadagni tali da riuscire a mantenere gli
standard dei consumi privati e pubblici. Per mascherare questo
fallimento e allontanare il declino, le hanno tentate tutte: la leva
finanziaria, i titoli tossici, il signoraggio del dollaro, oltre,
ovviamente, al vecchio trucco di stampare carta moneta. Niente:
nonostante le continue invocazioni e i lauti sacrifici umani, la "santa
crescita" non arriva, e non arriverà mai più, almeno per chi è da questa
parte del mondo.
I debiti nelle economie industriali mature, a partire dagli Stati Uniti
(il Paese maggiormente debitore, al mondo) hanno cominciato a crescere
già a cavallo degli anni '70 e '80 del secolo scorso. L'immissione di
crediti si è resa necessaria, perché si erano inceppati i normali
meccanismi di profitto-accumulazione-investimenti-riproduzione fino a
quel momento garantiti dai tradizionali cicli economici produttivi
industriali. L'idrovora dell'espansione, dello sviluppo e della crescita
è insaziabile. L'intensificarsi delle crisi (non solo finanziarie)
rende sempre più stringente il dilemma: continuare a inseguire il
benessere attraverso la crescita dei beni e dei servizi immessi sul
mercato, pur sapendo che i costi ambientali e sociali per la maggior
parte delle popolazioni della Terra superano di gran lunga i benefici,
oppure cambiare rotta usando strumenti di riferimento diversi dal
dettato economicista? Non è il caso di cominciare a domandarci se non
sia una solenne sciocchezza pensare soltanto agli aumenti del PIL? O,
addirittura, se non ce la faremmo lo stesso a cavarcela – e magari anche
meglio – con una "economia in contrazione", cioè producendo, comprando e
vendendo non molto di più di quanto ci è necessario per vivere?
Un’economia "stazionaria", come la virtuosa ciclicità naturale insegna.
La parola "crisi" in cinese, composta nei suoi ideogrammi, può essere
interpretata abbinando il concetto di "crisi" con quello di
"opportunità". Si può quindi uscire dall'economia del debito (cioè da
quell’economia che pone gli interessi del capitale al di sopra di quelli
del lavoro e della vita stessa delle persone e dell'ecosistema
terrestre) e da tutto ciò che ne deriva. È questo, il vero recinto di
pensiero da cui nessuno riesce a uscire. Le vecchie ricette keynesiane
non hanno realmente più margini di applicazione, in una crisi
strutturale di queste dimensioni e di questa qualità. È ormai chiaro che
le risposte possono venire solo uscendo dalle regole e dai dogmi del
mercato. Dovremmo pensare a un altro tipo di ricchezza, a un altro tipo
di benessere, a un altro modo di lavorare e a un altro modo di
relazionarsi, tra le persone, che non sia quello che passa attraverso il
portafogli.
In tal senso, diventa realistico parlare di post-crescita, se si indica
la necessità è l’urgenza di un’inversione di tendenza rispetto al
modello dominante dello sviluppo e della crescita illimitati.
La società della crescita non è auspicabile per almeno tre motivi:
dispensa un benessere materialistico illusorio, incrementa le
disuguaglianze e le ingiustizie e non offre un tipo di vita
filosoficamente o religiosamente giusto, conviviale e comunitario. È una
"antisocietà", malata di ansia di ricchezza, di egoismo e di
utilitarismo. Il miglioramento del tenore di vita, di cui crede di
beneficiare la maggioranza degli abitanti dei Paesi "sviluppati" è
un'illusione; indubbiamente, molti possono spendere di più per
acquistare beni e servizi mercantili, ma dimenticano di calcolare una
serie di costi aggiuntivi in forme diverse, non sempre monetizzabili,
legate al degrado – non quantificabile, ma subìto – della qualità della
vita (aria, acqua, ambiente): ad esempio, le spese di "compensazione" e
di riparazione (farmaci, trasporti, intrattenimento) imposte dalla vita
moderna o determinate dall'aumento dei prezzi di generi divenuti rari
(l'acqua in bottiglie, l'energia, il verde...). Lo stesso criterio di
“qualità della vita”, disponendo come principio essenziale, per una
fattiva controtendenza, il reincantamento del mondo su principi certi
inerenti alla sacralità del vivente e l’irriducibilità della condizione
esistenziale dell’uomo come parte consapevole del cosmo, è oramai
ostaggio del nichilismo individualista, che affoga nell’inautenticità
della mercificazione universale. Un’inversione di tendenza si rende
quindi necessaria, per il semplice motivo che l'attuale modello di
sviluppo è ecologicamente insostenibile, ingiusto e incompatibile con
gli equilibri omeostatici della natura: esso porta con sé, sulla scia
dei Paesi ricchi, perdita di autonomia, alienazione, nichilismo
pragmatista, aumento delle disuguaglianze sociali e dell'insicurezza
personale e comunitaria.
Occorre allora tracciare un percorso che ci conduca verso un nuovo
immaginario, un paradigma alternativo, un’originale prospettiva meta
politica. È questo, l'orizzonte di un'altra economia, giusta e
sostenibile, cioè comunitaria; è questo, il sostrato materiale di un
principio universale di giustizia internazionale: l'autodeterminazione
dei popoli.
In senso generale, se in ogni luogo c’è un centro del mondo possibile, è
necessario che gli uomini tornino a essere abitanti del loro
territorio, riprendano cioè in mano la questione ecologica e spirituale
della loro sopravvivenza, dal momento che è oramai minacciata nella sua
stessa sostanza dai meccanismi razionalistici, che si insinuano a
livello cellulare fino al fondamento stesso del vivente. In questo
orizzonte, l’esigenza identitaria va politicamente reinterpretata come
energia costruttiva per la crescita della coscienza del luogo e per
l’affermazione di modelli di sviluppo autocentranti, fondati sulle
peculiarità socioculturali, sulla cura e la valorizzazione delle risorse
locali – territoriali, cioè ambientali e quindi produttive e
sostenibili – e su reti di scambio complementari e reciprocitarie,
invece che gerarchiche, fra entità locali. Il principio di sussidiarietà
deve partire dall’entità fondamentale della comunità naturale (la
famiglia) e delegare alle entità superiori solo ciò che non è
assolvibile dal livello fondamentale, autonomo e libero, e quindi coeso e
comunitariamente partecipe dell’organismo complessivo. Allora l’uomo si
sentirà parte di una comunità, protetto, e quindi avrà verso di essa un
comportamento sobrio, responsabile e consapevole.
Si vede subito, quali sono i valori prioritari da far prevalere su
quelli oggi dominanti: la sacralità del vivente sulla mercificazione;
l'altruismo sull'egoismo; la reciprocità sulla competizione; il piacere
ludico e relazionale sull'ossessione del lavoro; l'importanza della vita
sociale sul consumo; il gusto del bello, del bene e del vero
sull'efficientismo pragmatico. Il problema è che i valori utilitaristici
attualmente dominanti sono pervasivi, perché suscitati e stimolati dal
sistema, che essi stessi, a loro volta, contribuiscono a rafforzare. La
scelta di un'etica personale diversa, come quella della sobrietà
volontaria, può incidere sull'attuale tendenza e minare alla base
l'immaginario del sistema. Senza una sua contestualizzazione
partecipativa, però, il cambiamento rischia di rimanere limitato al
livello della coscienza individuale. È necessario un nuovo paradigma,
che mostri in modo persuasivo l’indispensabilità di un mutamento epocale
sul piano reale: culturale, sociale ed economico. Costruendo delle
identità comunitarie tese al bene comune e alla ciclicità della natura,
si può uscire dall'artificio vettoriale e suicida della modernità.
Eduardo Zarelli
Fonte: www.ariannaeditrice.it
Link: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=43534
22.06.2012